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LA DEDUCIBILITÀ DEI COMPENSI AGLI AMMINISTRATORI


La sentenza numero 21933 del 29 Agosto 2008 della Corte di Cassazione, Sezioni Unite, ha stabilito che il diritto alla remunerazione dei compensi degli amministratori delle società di capitali deve essere stabilito in modo obbligatorio da una specifica delibera societaria.
Non risulta quindi sufficiente la delibera di approvazione del bilancio, nella quale i compensi venivano indicati in passato, per ratificare, nella pratica, la legittimità dei compensi stessi e, quindi, anche il riconoscimento dal punto di vista fiscale ai fini della deducibilità del relativo costo.
Gli amministratori non possono determinare in proprio il compenso, salvo poi ottenere successivamente, la ratifica dei soci in sede di approvazione del bilancio annuale.
La Corte di Cassazione ha avuto modo di affermare che “è, pertanto, evidente che la violazione dell’articolo 2389 c.c., sul piano civilistico, dà luogo a nullità degli atti di autodeterminazione dei compensi da parte degli amministratori per violazione di norma imperativa, nullità che, per il principio stabilito dall’articolo 1423 c.c., non è suscettibile di convalida, in mancanza di una norma espressa che disponga diversamente”.
Dalla lettura della sentenza si evince come la Corte di Cassazione afferma che l’approvazione del bilancio ha una semplice funzione di accertamento della regolarità della rappresentazione contabile del consuntivo annuo.
La soluzione all’eventuale assenza della delibera, del diritto alla percezione dei compensi agli amministratori, è da ricercarsi nel fatto che l’approvazione per l’attribuzione giunge al perfezionamento contemporaneamente all’approvazione del bilancio.
A seguito della sentenza in oggetto, risulta consigliabile porre grande attenzione nella gestione delle pratiche societarie, soprattutto nell’ambito di società a base sociale ristrettissima.
Può capitare infatti che i soci amministratori si auto liquidino compensi una tantum senza disporre di una preventiva delibera; in tal caso, secondo quanto espresso dalla Corte di Cassazione, si potrebbe pervenire al disconoscimento della deducibilità del relativo costo con ovvie conseguenze nell’eventuale ipotesi di un accertamento fiscale.
Secondo l’orientamento prevalente della Suprema Corte, in presenza di un comportamento contrario ai canoni dell’economia, l’Amministrazione finanziaria ha il potere di valutare l’inerenza dei costi eventualmente dedotti. Molte sentenze affermano il non riconoscimento fiscale degli atti evidentemente antieconomici, dai quali emergono costi del tutto sproporzionati rispetto ai ricavi dell’impresa.
La dottrina, invece, propende per considerare l’impossibilità per gli Uffici di valutare, in sede di accertamento, la congruità dei corrispettivi derivanti dai contratti e dalle scritture contabili, fondando i propri convincimenti sul fatto che nel nostro ordinamento tributario è stabilita l’applicazione del criterio del valore normale, nell’ambito delle imposte sui redditi, solamente in presenza di particolari situazioni, quali, ad esempio, la mancanza del corrispettivo. Inoltre, l’articolo 37-bis del Decreto del Presidente della Repubblica numero 600 del 1973 (norma antielusiva), opera in ambienti sostanzialmente circoscritti.
Di frequente, in sede di accertamento di piccole società, l’Amministrazione finanziaria riprende a tassazione dei compensi erogati agli amministratori, basandosi sulle motivazioni sopra esposte, nel caso in cui non vengano offerte debite giustificazioni a supporto della regolarità dell’attribuzione dei compensi.
La Suprema Corte, Sezione tributaria, con la sentenza numero 28595 del 2 Dicembre 2008, ha negato la legittimità di un tale potere al Fisco, vista l’assenza di una norma che fissi dei parametri massimi di spesa oltre i quali i compensi agli amministratori non possono essere dedotti.
Tale ragionamento poggia le proprie basi sul fatto che l’articolo 95 del Tuir non contiene limiti oggettivi ai fini della deducibilità dei compensi erogati agli amministratori da parte della società.
Se venisse permesso all’Amministrazione finanziaria di formulare un libero giudizio di congruità dei costi, vi sarebbe il pericolo di violare il diritto di difesa del contribuente.
L’Amministrazione finanziaria, per confutare la deducibilità dei compensi degli amministratori ritenuti eccedenti rispetto ad una soglia ritenuta ragionevole, utilizza l’eccezione relativa alla violazione del principio di inerenza ex articolo 109 del Tuir. In tale ambito è intervenuta la Corte di Cassazione con la sentenza numero 6599 del 2002, mediante la quale viene stabilito che l’inerenza deve essere considerata come un limite qualitativo e non, invece, di tipo quantitativo. Nelle situazioni in cui i costi sono astrattamente riferibili all’attività di impresa e, quindi, alla produzione di ricavi, come senza dubbio è il caso dei compensi degli amministratori, non risulta possibile sindacarne la legittimità, senza che sussista una predeterminazione legislativa specifica.
In caso in cui venisse disconosciuta la deducibilità del compenso corrisposto dalla società all’amministratore, quest’ultimo non dovrebbe essere assoggettato, nella stessa misura, ad imposizione diretta personale.
La sentenza della Corte di Cassazione numero 24188 del 13 Novembre 2006, ha stabilito che le remunerazioni corrisposte all’amministratore unico anche dipendente della società, sarebbero fiscalmente indeducibili. Per arrivare a tale conclusione, la Cassazione ha fondato i propri convincimenti sul presupposto che la carica di amministratore unico sarebbe incompatibile con quella di dipendente della stessa società, in quanto non può ricorrere l’effettivo assoggettamento al potere di direttivo, di controllo e disciplinare gli altri. Quindi, l’opera dell’amministratore sarebbe assimilabile a quella eseguita dall’imprenditore e dato che la remunerazione dell’imprenditore è fiscalmente indeducibile, la stessa sorte dovrebbe essere seguita anche dal compenso dell’amministratore-dipendente.